A BRONI, NEL CUORE DELLA PROVINCIA PAVESE, SI RESPIRA UN’ARIA PESANTE, MA NON SOLO PER LE POLVERI D’AMIANTO CHE PER DECENNI HANNO AVVOLTO LO STABILIMENTO FIBRONIT: IL SILENZIO DELLA GIUSTIZIA NEGATA GRAVA SULLE FAMIGLIE, SUI LAVORATORI, SUI SOPRAVVISSUTI E SULLA MEMORIA DI CHI NON CE L’HA FATTA. UNA VICENDA GIUDIZIARIA LUNGA, ESTENUANTE E PROFONDAMENTE AMARA SI CHIUDE CON LA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE PER 470 CASI DI MESOTELIOMA PLEURICO CAUSATI DALLE FIBRE LETALI. MA DAVVERO NON È POSSIBILE OTTENERE GIUSTIZIA PER QUESTE VITTIME? L’AVVOCATO EZIO BONANNI, PRESIDENTE DELL’OSSERVATORIO NAZIONALE AMIANTO (ONA), NON CI STA: «NON È VERO CHE NON È POSSIBILE RENDERE GIUSTIZIA ALLE VITTIME. NON È VERO CHE NON ESISTE UNA PROVA CERTA SUL NESSO CAUSALE»
Il dramma della Fibronit: una battaglia lunga vent’anni e il silenzio di chi non ha voluto sentire
Nel 2004, le indagini sullo stabilimento Fibronit di Broni (un’azienda produttrice di elementi per l’edilizia in amianto) iniziarono a svelare una delle pagine più drammatiche legate alla dispersione del killer silente in Italia. Tonnellate di fibre tossiche, rilasciate nell’aria nel corso degli anni, erano ritenute responsabili di centinaia di morti e di un numero crescente di casi di mesotelioma pleurico, una malattia che ancora oggi continua a mietere vittime. La gravità della situazione condusse, nel 2009, all’avvio di un procedimento penale che portò dieci dirigenti dello stabilimento a rispondere delle accuse di omicidio colposo e lesioni personali.
Da quel momento, la vicenda intraprese un lungo percorso giudiziario, segnato da rinvii, dibattimenti e ricorsi.
Nel giugno del 2011, dopo anni di indagini approfondite, la Procura presentò formale richiesta di rinvio a giudizio per i dieci imputati: Michele Cardinale, Lorenzo Mo, Dino Augusto Stringa, Teodoro Manara, Claudio Dal Pozzo, Giovanni Boccini, Guglielma Capello, Maurizio Modena, Domenico Salvino e Alvaro Galvani. Il caso, caratterizzato da iter processuali complessi e spesso contraddittori, vide nel corso del tempo uno scenario che si evolveva in modo significativo. Nel frattempo, quattro imputati erano deceduti, uno fu dichiarato incapace di sostenere un processo e per gli altri si susseguirono sentenze contrastanti, tra condanne e assoluzioni.
Il momento decisivo arrivò nel 2022, con una sentenza di assoluzione definitiva in sede di appello-bis. La decisione giunse dopo che la Corte di Cassazione aveva annullato le condanne emesse nei primi due gradi di giudizio, segnando così la fine del procedimento dal punto di vista giudiziario. Questo epilogo lasciò tuttavia un’ombra di insoddisfazione in molte delle persone colpite dalla tragedia, poiché la giustizia formale non aveva identificato responsabili definitivi per le perdite subite.
Il silenzio degli innocenti
Adesso, con il deposito della richiesta di archiviazione da parte del sostituto procuratore Andrea Zanoncelli e del procuratore Fabio Napoleone, si è posto un sigillo formale sulla vicenda. Questo atto rappresenta non solo l’epilogo di una delle indagini più lunghe e controverse nel panorama giudiziario italiano, ma anche un tentativo di fornire risposte alle tante domande rimaste in sospeso.
Con l’archiviazione, la Procura sancisce la chiusura definitiva di un iter giudiziario travagliato, evidenziando ancora una volta la complessità di casi in cui la responsabilità individuale si intreccia con decenni di omissioni e pratiche aziendali che hanno segnato irreparabilmente vite e territori. Resta il peso di una tragedia ambientale e umana che, nonostante le sentenze, continua a sollevare interrogativi e riflessioni sul rapporto tra salute pubblica e responsabilità industriale. Ma come si era pronunciata la Cassazione?
Insanabile incertezza scientifica
La Corte di Cassazione, nel pronunciarsi sul caso, aveva evidenziato “l’insanabile incertezza scientifica” che avrebbe impedito di stabilire con assoluta certezza un nesso causale diretto tra la gestione dello stabilimento di Broni nel periodo 1981-1985 e i casi di mesotelioma pleurico contratti dalle vittime. Sebbene fosse stato riconosciuto che tutte le persone colpite dalla malattia avessero inalato le polveri di amianto disperse dall’impianto, e si fosse esclusa ogni altra possibile causa alternativa, il lungo arco temporale delle esposizioni, spesso decennale, avrebbe reso impossibile individuare con precisione il momento esatto in cui si era innescata la cancerogenesi. Questo elemento ha rappresentato un ostacolo insormontabile per individuare una responsabilità penale diretta a carico degli imputati che ricoprivano ruoli dirigenziali in quegli anni.
La Procura ha sottolineato, in questo contesto, come il suo lavoro, durato oltre un decennio, avesse mirato non solo a perseguire responsabilità penali, ma anche a ricostruire un quadro storico della tragedia che si è consumata a Broni e nella provincia di Pavia.
Pertanto, pur riconoscendo il disastro ambientale e sanitario, ha ammesso l’impossibilità di proseguire: «La prospettiva penalistica non ha saputo offrire una tutela alle vittime del contagio da fibre di amianto né ai loro prossimi congiunti».
Il percorso giudiziario si è così infranto contro limiti insuperabili, e ogni ulteriore tentativo di proseguire le indagini o di avviare nuove azioni penali è stato giudicato privo di basi solide.
Una bomba a orologeria
Le parole pronunciate da uno degli avvocati delle parti civili durante il processo restano un’eco dolorosa della tragedia: «Tutti noi che viviamo o lavoriamo a Broni siamo delle bombe a orologeria. Speriamo solo di essere graziati per qualche motivo e che, in qualche modo, possa arrivare una qualsiasi forma di risposta dello Stato». Queste riflessioni, cariche di angoscia e impotenza, mettono in luce la devastazione lasciata dalla contaminazione dall’asbesto, che non si limita alle vittime dirette ma segna profondamente l’intera comunità locale.
Il triste epilogo evidenzia non solo i limiti della giustizia penale nell’affrontare disastri ambientali di tale portata, ma anche la necessità di un intervento più ampio e strutturale, capace di garantire risposte e protezione per chi ha subito le conseguenze devastanti di questa tragedia. Una chiusura che lascia irrisolta la richiesta di giustizia, con l’ombra di una ferita ancora aperta per una comunità che attende un riconoscimento reale del proprio dolore.
Una cosa è tuttavia certezza: che le fibre d’amianto ha ucciso. «La scienza ha chiarito che l’amianto uccide, e quindi non è ammissibile questa denegata giustizia», denuncia l’avv. Ezio Bonanni.
La lotta che non si ferma: il ricorso internazionale
Nonostante l’archiviazione, l’ONA e il suo presidente, non intendono fermarsi. «Procederemo con il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro lo Stato italiano e faremo opposizione alla richiesta di archiviazione», ha annunciato Bonanni con fermezza. La giustizia penale potrà aver chiuso le porte, ma quella morale e civile resta aperta.
La lotta è, infatti, più grande di un singolo processo: è la lotta per il diritto alla salute, per la tutela dei lavoratori e per il riconoscimento di una verità negata. «Non è ammissibile che lo Stato abdichi al suo compito di proteggere i cittadini – ha aggiunto Bonanni- e chiudere gli occhi davanti a una tragedia come questa significa perpetuare l’ingiustizia».
La vicenda della Fibronit non può e non deve essere dimenticata. Non si tratta solo di numeri – 470 vittime – ma di vite spezzate, famiglie distrutte e una comunità segnata per sempre. L’archiviazione non cancella il dolore né la responsabilità morale di una società che deve fare di più per tutelare i propri cittadini.
Come sottolinea Bonanni: «L’amianto uccide. È una certezza scientifica. E non è vero che non si possa rendere giustizia alle vittime». Broni attende ancora quella giustizia, e chi combatte per loro non si arrenderà.