Ombre misteriose si stagliano dietro l’uso dell’uranio impoverito nelle armi, una realtà che ha sollevato preoccupazioni globali. Fin dal Memorandum Groves dell’ottobre 1943, era nota la pericolosità del “depleted uranium”, ma solo ora stiamo iniziando a comprendere appieno l’impatto devastante che ha avuto sulla salute umana e sull’ambiente.
Certo è che la sua storia è fatta di dolore, malattie e morte, e la sua presenza continua a sollevare domande sulla nostra comprensione della tecnologia, dell’etica e della responsabilità verso il nostro mondo e le future generazioni
Ombre radioattive di un nemico nascosto
Ombre radioattive. L’uranio impoverito, prodotto secondario del processo di arricchimento dell’uranio, ha suscitato una serie di preoccupazioni e domande. Il termine stesso, “impoverito”, deriva dalla riduzione della percentuale dell’isotopo fissile U-235 da lo 0,7% allo 0,2% durante il processo di arricchimento.
È noto che l’uranio impoverito possiede una radioattività inferiore rispetto all’uranio naturale, costituendo circa il 60% di quest’ultimo. Tuttavia, questa minore radioattività non deve trarre in inganno, poiché le sue implicazioni sulla salute umana e sull’ambiente sono rilevanti e devastanti.
Le tracce di questo elemento hanno una presenza sinistra nella storia, legate a incidenti e malattie che hanno colpito centinaia di persone, militari e civili. È stato associato a un aumento significativo di casi di cancro e altre malattie croniche.
In particolare, almeno 400 morti e 8mila militari italiani malati di cancro (cifre per altro sottostimate) sono stati attribuiti all’uranio impoverito.
Uso in campo bellico
Inizialmente considerato un sottoprodotto di scarto dalle centrali nucleari, l’uranio impoverito ha sorprendentemente trovato applicazioni nell’industria bellica, diventando una componente indispensabile nei conflitti armati.
La sua capacità di essere modellato in una struttura incredibilmente resistente lo ha reso infatti un’opzione allettante per l’industria bellica, superando in convenienza economica materiali tradizionali come il tungsteno.
La sua efficienza nel perforare corazzature e resistere a obiettivi solidi è poi a dir poco impressionante, generando temperature straordinarie oltre i 3.000 gradi centigradi e creando un aerosol letale di metalli pesanti.
Questo materiale, apparentemente innocuo a una prima occhiata, ha dunque assunto una doppia identità. Da un lato, come rifiuto proveniente dalle centrali nucleari, richiede un’adeguata gestione e smaltimento. Dall’altro, come componente chiave delle armi militari, è diventato un simbolo di successo tecnologico.
Peccato che ombre sinistre si annidino dietro l’uso del pericoloso materiale.
A sottolinearlo, già l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel lontano gennaio 2003. I moniti dell’OMS sono stati ignorati o sottovalutati? Bella domanda.
Ombre sinistre: La “Sindrome dei Balcani”
I ricordi delle campagne belliche in Bosnia (1994) e Kosovo (1999), in cui l’uranio impoverito fu utilizzato dalla NATO, non sono stati cancellati dal tempo.
Basti pensare alla cosiddetta “Sindrome dei Balcani” del 2000, che portò alla luce i primi casi di militari italiani malati o deceduti dopo le missioni in Bosnia Erzegovina e Kosovo.
Una duplice minaccia
Nonostante la bassa radioattività, se ingerito in quantità specifiche, il DU può comportare il rischio insidioso di cancro. La sua tossicità infatti non è direttamente legata alla radioattività, ma piuttosto alla dispersione di nanoparticelle di metalli pesanti.
A comprovarlo, la presenza delle stesse, rintracciate nei tessuti bioptici dei militari affetti da patologie letali.
In aggiunta, il “nemico invisibile” minaccia non solo i militari sul campo di battaglia, ma anche coloro che, involontariamente, entrano in contatto con l’elemento radioattivo.
Le conseguenze della sua esposizione prolungata vanno dunque ben oltre i danni evidenti causati dalla tossicità radioattiva, estendendosi anche ai pericoli della sua tossicità chimica.
L’inquinamento derivante dal rilascio delle nanoparticelle inoltre persiste nell’ambiente per anni, contaminando la catena alimentare e svelando un effetto a lungo termine di cui solo ora stiamo comprendendo la gravità. Per citare un esempio, basti pensare agli agnelli nati con malformazioni in Sardegna, nei pressi dei poligoni militari sperimentali di Capo Teulada, Salto di Quirra e Perdasdefogu.
Malformazioni scaturite per l’appunto da questa contaminazione.
Il quadro dipinto è insomma quello di un’insidia silenziosa, una presenza subdola che si insinua nei tessuti e nell’ambiente, lasciando dietro di sé una scia di malattie e deformità.
Implicazioni letali: ancora ombre di morte
Quanto alle implicazioni, le ombre letali sono davvero inquietanti.
La sua persistente nocività chimica colpisce principalmente i reni, anche con esposizioni brevi, rendendolo estremamente dannoso per l’organismo umano. Questo “veleno debole“, come precedentemente definito in studi sulla sua tossicità sugli animali condotti dall’UNSCEAR (Istituzione delle Nazioni Unite), continua a destare preoccupazione per la sua pericolosità.
Sia durante situazioni di conflitto sia al di fuori di esse, l’uranio impoverito può entrare infatti in contatto con individui, in diverse circostanze.
Le parti dell’organismo maggiormente colpite dalla contaminazione sono il sistema respiratorio e soprattutto i reni, che subiscono gravi danni anche in seguito a esposizioni di breve durata.
Tuttavia, non sono solo i militari a rischiare: un’apertura cutanea a contatto con una superficie contaminata può esporre chiunque a questo agente tossico.
La pericolosità dell’uranio impoverito non si limita al momento dell’impatto, ma perdura nel tempo, costituendo una minaccia silenziosa e persistente per la salute di coloro che vi sono stati esposti. Risultato?
Luci e ombre: effetti letali
La diffusione di uranio impoverito in diversi conflitti nel mondo ha lasciato una scia di devastazione. Centinaia di tonnellate di questo materiale si sono sparse dai Balcani al Medio Oriente, disseminando una possibile epidemia di malattie legate all’uranio impoverito e ad altri metalli pesanti radioattivi.
L’incidenza tumorale è schizzata in modo allarmante nelle aree contaminate, con un aumento significativo dei casi tra la popolazione sotto i 50 anni.
Gli effetti radiologici e chimici provocati dalle esplosioni di ordigni all’uranio impoverito e l’ingente numero di patologie oncologiche, in molti casi mortali, riscontrati tra i militari sono correlati e sono scientificamente dimostrati.
A conferma di quanto sostenuto, vi sono numerose sentenze di condanna al ministero della Difesa per aver fatto operare i militari senza le dovute precauzioni, documenti dell’ISS, del Pentagono, della NATO.
In Italia, quasi 300 sentenze hanno riconosciuto la correlazione tra gravi forme tumorali e l’esposizione all’uranio impoverito.
In definitiva, la guerra, con la sua eredità tossica, lascia un’impronta indelebile sulla salute e sull’ambiente. L’uranio impoverito si rivela una minaccia continua, colpendo sia i militari sia i civili esposti a territori contaminati, con conseguenze gravi e a lungo termine. La storia dell’uranio impoverito dunque non è solo una narrazione di guerre passate, ma una realtà inquietante che richiede una risposta urgente e impegnativa a livello globale.