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giovedì, Dicembre 7, 2023

Mastro Titta: “er boja” della Roma papalina

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Mastro Titta, fu il boia più prolifico nella storia del Regno Pontificio. Secondo una leggenda, il suo fantasma si aggira ancora nei luoghi delle esecuzioni.

Mastro Titta: boia o verniciatore di ombrelli? 

Mastro Titta. All’anagrafe Giovanni Battista Bugatti, (Senigallia 1779- Roma 1869), era ufficialmente un verniciatore di ombrelli. Oltre alla sua attività artigianale, l’uomo tuttavia era noto per essere il “maestro delle giustizie” (da cui l’appellativo “Mastro”) dello Stato Pontificio.

Nei sessantotto anni di “onorata” carriera, prestò servizio per sei Papi, da Pio IV a Pio IX.

Con una media di sette esecuzioni annue, “er boja de Roma”, tra il 22 marzo 1796 e il 17 agosto 1864, giustiziò 514 persone. Poi andò in pensione, guadagnando un vitalizio mensile di 30 scudi, pari a circa 2.600 euro odierni).

In realtà, nel suo taccuino, l’uomo aveva riportato 516 nomi, ma a quanto pare, due di essi vennero stornati dalla lista, perché non rientravano nella metodologia esecutiva canonica. 

Il primo morì fucilato, il secondo impiccato e squartato dal suo aiutante Vincenzo Balducci.

La sua attività ebbe una piccola tregua, durata qualche mese, quando nel 1849 la Repubblica Romana di Mazzini spodestò il Papa e abolì la pena di morte. Dopo l’interferenza di Napoleone III e la restaurazione del potere temporale di Pio IX, tuttavia le cose tornarono come prima.

Essendo al soldo del Papa, Mastro Titta eseguiva le condanne anche in altre zone in cui il Vaticano esercitava il suo potere: Foligno, Macerata, Frosinone, Perugia.

Il libro di Mastro Titta 

Nel 1891, l’editore Edoardo Perino, pubblicò in chiave romanzata il taccuino di Bugatti, dal titolo “Mastro Titta, il boia di Roma: Memorie di un carnefice scritte da lui stesso”.

A scriverlo fu probabilmente Ernesto Mezzabotta, ma in realtà il nome dell’autore non compare mai.

L’incipit del testo

«Esordii nella mia carriera di giustiziere di Sua Santità, impiccando e squartando a Foligno Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima un prete e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due frati. Giunto a Foligno incominciai a conoscere le prime difficoltà del mestiere: non trovai alcuno che volesse vendermi il legname necessario per rizzare la forca e dovetti andar la notte a sfondare la porta d’un magazzino per provvedermelo.

Ma non per questo mi scoraggiai e in quattr’ore di lavoro assiduo ebbi preparata la brava forca e le quattro scale che mi servivano. Nicola Gentilucci frattanto, a due ore di notte, dopo avergli rasata la barba e datogli a vestire una candida camicia di bucato e un paio di calzoni nuovi, venne condotto coi polsi stretti da leggere manette, nella gran sala comunale, poiché volevasi dare la massima solennità all’esecuzione, stante la gravità del suo delitto, superiore a qualsiasi altro, trattandosi dell’uccisione di un curato e di due frati».

“Boia nun passa ponte”

Per ovvie ragioni, Mastro Titta non godeva della simpatia dei suoi concittadini. Di conseguenza rimase perennemente confinato all’interno della cinta vaticana, al numero 2 di vicolo del Campanile.

Si racconta che addirittura non potesse attraversare l’altro lato del Tevere, per motivi di sicurezza.

Da qui nascerebbe il proverbio romano “Boia nun passa ponte“, che significa “ciascuno se ne stia al proprio posto“. 

Mastro Titta passa ponte

Il boia poteva oltrepassare il Tevere solo quando era chiamato a giustiziare qualcuno. Le esecuzioni non avvenivano infatti nel borgo papalino, bensì in luoghi quali: piazza del Popolo, piazza di Ponte, Campo de’ Fiori o via dei Cerchi.

In questo caso, Bugatti attraversava ponte S.Angelo e si recava “al lavoro”.

Questo particolare, diede vita a un altro famoso detto romanesco: “Mastro Titta passa ponte“, a significare qualche esecuzione imminente. 

Prima di procedere con le operazioni, Mastro Titta si confessava, prendeva i sacramenti e, indossato un mantello rosso dava via all’esecuzione. Anche il condannato a morte veniva portato in chiesa il giorno prima per ricevere gli ultimi sacramenti.

Uno spettacolo che destava curiosità nel popolino e non solo

Se da un lato i romani odiavano Mastro Titta, dall’altro pare che il popolino apprezzasse “gli spettacoli”.

Piccola curiosità: gli uomini portavano con sé i figli e nel momento in cui terminava il lavoro del boia, erano soliti schiaffeggiare i pargoli. Questo serviva quale monito, per far capire loro cosa sarebbe successo in caso di problemi con la giustizia.

Tale usanza è riportata da Giuseppe Gioachino Belli nel sonetto n. 68 chiamato “Er dilettante de Ponte”. “Tutt’a un tratto, al paziente, Mastro Titta appioppò un calcio in culo, e il papà a me, uno schiaffone sulla guancia con la destra. Tieni, mi disse, e ricordati bene che questa stessa fine sta già scritta per mille altri che sono meglio di te”.

Nel 1817 George Gordon Byron, narrò dettagliatamente una scenografica esecuzione. 

Nel 1845 Charles Dickens, dopo aver visto Mastro Titta all’opera, riportò l’episodio nel suo libro Pictures of Italy (“Lettere dall’Italia”, 1846)

La storia di Mastro Titta è riportata anche nella commedia musicale di Garinei e Giovannini, Rugantino”.

La filastrocca di Mastro Titta

Il personaggio ha persino ispirato una filastrocca per bambini che recita “sega sega Mastro Titta, ‘na pagnotta e ‘na sarciccia, una a me, una a te, una a mammeta che ‘so tre!”.

Quanto era cattivo Mastro Titta?

Mastro Titta non è visto solo come un cinico e freddo assassino, mano spietata del governo del papa. 

In certi casi viene descritto come una persona, per così dire, “umana”, che svolgeva il lavoro con distacco.

Egli cercava di soddisfare gli ultimi desideri dei condannati a morte: un sorso del vino, un’ultima presa di tabacco e poi di corsa sul patibolo. Ai lati del patibolo, i frati dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, rigorosamente incappucciati, avevano il compito di pregare per l’anima. 

Le tecniche di Mastro Titta

Fra le tecniche utilizzate dal boia: l’impiccagione, il mazzolamento (l’uccisione con un colpo secco di mazza), la decapitazione.

In quest’ultimo caso, prima della Rivoluzione Francese si usava un colpo d’ascia, poi la testa mozzata veniva presa per i capelli, mostrata al popolo e infilzata su una picca.

Nei casi di crimini particolarmente efferati, soprattutto a danno del clero, si procedeva a squartare il cadavere post-mortem.

I quarti venivano poi affissi ai quattro angoli del patibolo.

Il museo del boia 

Al Museo Criminologico di Roma, nel Palazzo del Gonfalone, sono custoditi il mantello scarlatto, la tabacchiera e il coltello del carnefice.

L’arnese si utilizzava per mutilare i criminali indigenti, che non erano in grado di pagare le multe previste per i loro reati.

Per i poveracci, si procedeva con l’asportazione di occhi, il taglio di orecchie e nasi.

Ai ladri colti in fragranza, si tagliava dapprima la mano e, in caso di recidiva, anche la mano destra.

Il fantasma di Bugatti 

Secondo una leggenda, il fantasma di Bugatti si aggira ancora nei luoghi in cui era solito dar via alle esecuzioni. Avvolto nel suo mantello rosso, passeggerebbe all’alba, offrendo del tabacco a chi glielo chiede, proprio come faceva in vita.

Riferimenti bibliografici 

Mastro Titta, Il Boia Di Roma: Memorie Di Un Carnefice Scritte Da Lui Stesso

(foto dal sito romasparita.eu)

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