Stephan Ernest Schmidheiny accusato della morte per amianto di 6 lavoratori e altre 2 persone è stato condannato soltanto per uno di questi decessi. Il reato, da omicidio volontario, è stato derubricato, nella sentenza del processo Eternit bis Napoli, in colposo e l’imprenditore magnate dell’Eternit ha avuto ieri una pena a 3 anni e 6 mesi di reclusione. I pm Anna Frasca e Giuliana Giuliano avevano chiesto 23 anni e 11 mesi.
“Vergogna!”, la reazione dei familiari delle vittime
Alla lettura della sentenza quindi i familiari delle vittime sono rimasti sconcertati. “Vergogna, vergogna!” hanno urlato con le lacrime agli occhi. Aspettano da anni giustizia, una giustizia che probabilmente non arriverà, perché troppo tempo è passato dai fatti e tutti i reati diversi dall’omicidio volontario sono (o saranno tra poco) caduti in prescrizione.
Così Schmidheiny, 74 anni, non dovrà più rispondere della morte di 6 persone per intervenuta prescrizione, non perché utilizzando l’amianto non avesse alcuna responsabilità, ma perché la giustizia è lenta.
Per la morte di Franco Evangelista, Schmidheiny è stato assolto perché il fatto non sussiste. L’uomo risiedeva nelle vicinanze dell’Eternit di Bagnoli, ma il nesso causale non è stato dimostrato. Mentre è stato condannato a 3 anni e 6 mesi per il decesso di Antonio Balestrieri. “Vergogna” è stata anche la parola usata dal figlio di Balestrieri, anche davanti all’esigua somma destinata alle parti civili, che deluso ha dichiarato che tanto vale la vita del padre. Crolla così l’impianto accusatorio.
“La sentenza – ha commentato l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto – ci lascia delusi. Sembra che la giustizia italiana si sia adagiata alle tesi difensive dell’imputato. Naturalmente prendiamo atto delle diverse prescrizioni e della condanna a soli 3 anni e 6 mesi. Per questi motivi confidiamo nella giustizia divina presso la quale l’imputato dovrà rispondere anche dei reati prescritti. La prescrizione è comunque rappresentazione dell’esistenza del reato che si è prescritto perché la giustizia non è stata tempestiva. Per un caso comunque c’è la condanna. Solleciteremo l’impugnazione del procuratore generale contro la derubricazione”.
“Vergogna!”, l’amianto all’interno e all’esterno del sito
“Il processo ha evidenziato – ha continuato Bonanni mettendo in luce quanto emerso durante il dibattimento – come l’uso dell’amianto fosse pervasivo, a secco, senza cautele, privo di confinamento e con le maestranze ignare e sprovviste di mezzi di protezione. Tutto intorno, all’interno dello stabilimento, e anche all’esterno, amianto in sacchi, così sfusi. Questi sacchi, quelli di juta, erano privi di chiusura ermetica. Il crisotilo arrivava dalla cava di Balangero, mentre la crocidolite e l’amosite dal Sud Africa. Giungeva per mare l’amianto. I sacchi erano scaricati dalle navi e portati con i camion nello stabilimento, erano aperti e l’amianto impastato, senza che i lavoratori fossero a conoscenza di questo rischio”.
Le malattie causate dall’amianto
“Si ammalavano prima di asbestosi – ha aggiunto il presidente Ona sottolineando il calvario delle vittime – perché avevano i polmoni pieni di polvere, erano di cemento. Tossivano, rantolavano, e poi alla fine si riempivano di liquido. E’ il liquido pleurico, quello del mesotelioma, e così, giorno dopo giorno, i necrologi, all’ingresso dello stabilimento, e nelle zone circostanti del quartiere Bagnoli, verso Pozzuoli e verso il Vomero. Tutto intorno anche le nuvole di amianto dallo stabilimento, così uno ad uno, come foglie al vento, gli operai sono tutti deceduti, e poi anche i loro familiari, perché lavavano le tute, o perché respiravano le polveri dai capelli e dalla pelle”.
La sentenza della Corte d’assise di Napoli arriva dopo che l’imputato è stato assolto in Cassazione per prescrizione, per il reato di disastro ambientale, nonostante la ferma contestazione dell’avvocato Ezio Bonanni. Il presidente Ona aveva sottolineato come il disastro fosse ancora in corso, perché di amianto si continua a morire, come spiegato bene nel “Libro bianco delle morti di amianto in Italia – ed. 2022”.
Morti tanti dipendenti e molti dei loro familiari, ora la strage sta colpendo i singoli cittadini che hanno abitato nei dintorni dei 5 stabilimenti, tra i quali quello di Bagnoli. I dati relativi ai casi di mesotelioma consultabili sul VII Rapporto ReNaM dell’Inail lo dimostrano. Per questo la reazione dei familiari delle persone morte a causa dell’utilizzo dell’asbesto e la parola che ha risuonato in aula: “Vergogna!”, dà il senso dell’impotenza dei tanti lavoratori, delle loro famiglie e dei residenti davanti a qualcosa che non possono combattere.
I procedimenti giudiziari
Il Tribunale di Torino ha condannato l’imprenditore svizzero, il 13 febbraio 2012, nel processo Eternit, a 16 anni di reclusione. L’accusa era di disastro ambientale doloso permanente e per omissione volontaria di cautele antinfortunistiche. I giudici avevano disposto il risarcimento per tremila parti civili. Il 3 giugno 2013 la Corte d’Appello riformò la pena aumentandola a 18 anni. Dispose anche il risarcimento alla Regione Piemonte di 20 milioni di euro e di 30,9 milioni di euro per il comune di Casale Monferrato.
Il 19 novembre 2014 la Corte di Cassazione, però, dichiarò il reato di disastro ambientale prescritto e annullò le condanne e i risarcimenti in favore delle parti civili. In seguito i magistrati incardinarono il processo Eternit bis, diviso in 4 tronconi. A Napoli l’accusa di omicidio volontario non ha retto. Negli altri 3 tribunali l’accusa è, invece, di omicidio colposo.
La tesi difensiva, non c’era volontà di uccidere
Durante la scorsa udienza gli avvocati della difesa, Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva, avevano discusso diverse ore per smontare la tesi accusatoria. Gli avvocati hanno spiegato che non ci sarebbe stata nessuna volontà di veder morire i propri operai. Che le conoscenze dell’epoca fossero diverse rispetto a quelle che ci sono oggi e che, per questo, Stephan Ernest Schmidheiny non poteva sapere con certezza che l’amianto fosse cancerogeno. Hanno messo in dubbio le diagnosi di vari mesoteliomi, eseguite a volte solo sulla base di radiografie. I medici avrebbero dovuto prescrivere, invece, esami più specifici per averne la certezza.
Alleva ha, infine, messo in evidenza le opinioni concordanti di tutti i consulenti sentiti in aula intervenuti sul periodo della “latenza convenzionale”. Voleva dimostrare che nessuno può essere certo di quale esposizione abbia causato nel singolo caso il mesotelioma, dato che il periodo di latenza sarebbe, secondo alcuni studi, anche di 80 anni.
Nel corso del dibattimento alcuni lavoratori hanno spiegato che all’interno della fabbrica, in alcuni periodi, sarebbero stati addirittura costretti a coprirsi la bocca con i fazzoletti, perché non venivano fornite regolarmente le mascherine. Il fratello dell’imputato, invece, ha dichiarato che in casa, nella sua famiglia, la pericolosità dell’amianto fosse nota. Sempre secondo le sue dichiarazioni, i rischi sarebbero stati più volte insabbiati.
L’Ona, attraverso gli avvocati Ezio Bonanni e Flora Rosa Abate, si è costituita parte civile in questo processo. Continuando nell’importante missione di tutelare le vittime dell’amianto e dei loro familiari. L’associazione ha creato anche una App, per le segnalazioni, per contribuire a mettere in sicurezza i siti contaminati. Le vittime dell’amianto possono utilizzare lo sportello on-line, o il numero verde 800 034 294, per richiedere all’Ona una prima consulenza legale gratuita.