I dervishes rotanti sono dei mistici sufi, seguaci del poeta persiano Rumi. Battiato cantò loro danza ipnotica che connette con il divino. Oggi sono patrimonio Unesco.
Voglio vederti danzare come i Dervishes Toruner
“Voglio vederti danzare come i Dervisches Tourners, che girano sulle spine dorsali” cantava Franco Battiato nella canzone “Voglio vederti danzare” (album L’arca di Noè 1982).
Chi sono i dervishes?
Il movimento sufi e i danzatori dervishes
I dervisches rotanti fanno parte dell‘Ordine Mevlevi, una setta del sufismo mistico dell’Islam che rifugge il materialismo per mirare all’ascetismo, nata nel XIII secolo.
Il “loro capo” è il famoso mistico e poeta persiano Jalaluddin Rumi o Mevlâna -(Balkh – attuale Afghanistan -1207- 1273), che ha fortemente influenzato la scrittura e la cultura musulmana.
Durante l’Impero Ottomano, i Mevlevis e le loro tekke (logge) ebbero un ruolo di grande rilievo, ma nel 1925, Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Repubblica di Turchia, bandì tutti gli ordini sufi turchi.
Per tutto quel tempo e fino agli anni Cinquanta, i sufi continuarono ad operare in clandestinità i dettami della samāʿ(letteralmente ascolto in arabo e persiano della lettura del Corano).
Dal 2005, la loro cultura è stata inserita nel Patrimonio orale e immateriale dell’umanità dell’UNESCO.
La danza dei dervishes: un canale con il divino
Durante la raffinatissima esibizione, il dervish ruota vorticosamente girando su sé stesso in senso antiorario, con la gonna che crea una spirale ipnotica verso l’infinito.
Sembra in trance ed effettivamente Abdülham Çakmut esperto di sufismo scrive: “Mentre gira, le sue braccia sono aperte, la sua mano destra diretta verso il cielo pronta a ricevere la beneficenza di Dio, guardando la sua mano sinistra rivolta verso la terra”. “Questo è il suo modo di trasmettere il dono spirituale di Dio alle persone che guarda”.
Dervishes: simbologia dell’abbigliamento
La lunga veste bianca (tennure) simboleggia i sudari, il lenzuolo funebre, il mantello nero (hirka) simboleggia le lapidi dell’ego e il lungo copricapo chiamato sikke, simboleggia la pietra tombale dell’ego.
Lo sceicco della loggia indossa una giacca di lana lunga fino alla vita per rappresentare la legge islamica.
Le quattro fasi della cerimonia: il Naat-I Sharif
La cerimonia inizia con il Naati Serif, un’opera durante la quale un cantante solista tesse le lodi a Maometto e termina con il Taksim, una composizione intonata con un flauto di canna. L’utilizzo di questo strumento sta a indicare il soffio divino, l’anima donata all’Universo da Dio.
Fenafillah: la perfezione spirituale
Quando inizia la danza, il dervish lascia il mantello a terra. Questo gesto indica che sta voltando le spalle al mondo per avvicinarsi a Dio. Il dervish si posiziona attorno al pavimento circolare e inizia a girare con le braccia incrociate sul petto, volendo somigliare al numero uno in unità con Dio.
Rinunciando all’ego e alla propria identità personale, raggiunge una perfezione spirituale nota come fenafillah.
Questo stato, secondo Çakmut è paragonabile al nirvana buddista.
Con la differenza che il suo scopo non è “l’estasi ininterrotta e la perdita del pensiero cosciente“, bensì “la completa sottomissione e annientamento di sé nell’amato”.
Il Devr-i Veled
Durante il Devr, i semazens (altro nome dei dervishes) camminano lentamente per seguire il ritmo della musica peshrev.
Poi colpiscono il terreno con forza e, al suono di un tamburo, pronunciano la parola “Divino Sii”, che indica la creazione di Dio.
Successivamente girano tre volte in un’unica fila intorno alla sala e prima di ogni giro si inchinano ai loro partner davanti e dietro. Questo gesto simboleggia il respiro di Dio in ogni essere umano. Dopo l’inchino, si tolgono i mantelli neri.
I quattro Salem
Durante la cerimonia vengono eseguiti quattro Salem, rappresentazioni simboliche in musica.
- Il primo simboleggia la rinascita degli esseri umani e la conoscenza della verità, possibile solo attraverso la sottomissione a Dio;
- Il secondo Salem indica il rapimento dell’umanità e l’onnipotenza di Dio;
- Il terzo rappresenta la trasformazione del rapimento in amore. Rappresenta anche la sottomissione e l’unità;
- Il quarto rappresenta l’accettazione del sé dei dei semazens, sono servi di Dio.
Recita del Corano
Alla fine della cerimonia, i danzatori si salutano fra di loro e recitano il verso del Corano.“Dio è in Oriente e in Occidente, e il suo volto è ovunque”.
Addestramento dei dervishes
In cosa consiste l’allenamento dei dervishes?
Diventare dervisch richiede mesi di allenamento, non solo fisico, ma anche e soprattutto spirituale.
Si inizia con una tavola di legno e un sacchetto di sale. Quest’ultimo serve per evitare scivolamenti e vesciche.
Il danzatore ruota con l’alluce sinistro e il secondo dito del piede attorno a un chiodo posto al centro di una tavoletta quadrata.
Contemporaneamente, tiene il piede destro perpendicolare al sinistro e le braccia incrociate con i palmi delle mani sulle spalle.
Prima inizia a ruotare con i piedi e il corpo verto destra senza mai sollevare il tallone dalla tavola. Quando diventa pratico della tecnica, volteggia senza il chiodo, aprendo le braccia.
E le vertigini?
Già solo a guardare un dervish si può provare un senso di vertigini, per cui ci si chiede come i danzatori riescano a superare il fastidio.
Ebbene, entrando fin una sorta di trance ipnotico, i dervishes si lasciano guidare dai “sensi profondi”. Chiudino gli occhi e si lasciano guidare dall’orecchio interno. Cosa che assicura un equilibrio sufficiente. In aggiunta, l’ abbigliamento, la pace interiore data dalla fede e una dieta frugale impediscono la comparsa di nausea e vertigini.
“Mentre indossa il tennure, il derviscio rotante si sente più leggero in termini aerodinamici, e questo aiuta a prevenire le vertigini”– sottolinea Çakmut.
Il festival dei dervishes e la notte dell’unione
A dicembre, nella città anatolica di Konya si svolge il Festival di Mevlâna (dura una settimana).
Nato per celebrare l’anniversario della morte del poeta Rumi (17 dicembre 1273), è animato appunto dai dervishes che eseguono il rituale “Sheb-i Arus” o “notte dell’unione“.
Nel santuario dalla cupola turchese del Museo di Mevlâna, meta di pellegrinaggio di musulmani sufi, si trovano le tombe di Rumi, suo figlio Sultan Veled, fondatore dell’ordine Mevlevi con l’aiuto di Husameddin Chelebi e seguaci.
Il vicino Centro culturale Mevlâna ospita spettacoli samāʿ tutto l’anno.
Giuni Russo canta Rumi
Concludiamo ricordando una bellissima canzone di Giuni Russo “Vieni”, tratta dall’album Morirò d’amore (2003), che è la traduzione dei versi scolpiti sul portale di accesso alla tomba del mistico persiano.
”Vieni, vieni ancora, qualunque cosa tu sia,
“Se ti penti mille volte,
“Anche se infrangi mille volte il tuo pentimento, torna di nuovo
“La nostra porta non è una porta della disperazione.
“Vieni, vieni di nuovo qualunque cosa tu sia”.
Fonti
Il padiglione d’oro
Viaggiealtre storie.it
Madeinturkeytour.com