26.4 C
Rome
sabato, Ottobre 5, 2024
Home Blog

Morte per diagnosi errata: Asl condannata a risarcire

diagnosi errata

Errore medico: risarciti familiari del paziente deceduto

Errata diagnosi: confondono i sintomi di una leucemia con quelli di una colica renale. Per questo, perde la vita S.M., a soli 26 anni. Secondo la mia visione giuridica, anche in caso di perdita di chance sussiste la responsabilità e l’obbligo risarcitorio. Il caso in esame era stato trascurato anche dopo la morte del paziente. Grazie al supporto medico legale, e allo staff del mio studio (Studio Legale Bonanni), ho potuto dimostrare l’errore medico.

La ASL Roma 6, già Roma H, ha trascurato le mie sollecitazioni e quindi ho dovuto ricorrere al Giudice. Da qui, la condanna del Tribunale di Velletri.

Tribunale di Velletri: risarcimento record per diagnosi errata

Un errore medico, una diagnosi errata che ha portato alla morte, in soli cinque giorni, S.M., 26 anni di Anzio. La asl Roma H è stata condannata, con sentenza del Tribunale di Velletri, al pagamento di quasi ottocentomila euro. Questo importo è stato nel frattempo corrisposto. Infatti, in seguito al pignoramento, i familiari della vittima hanno ricevuto le somme dovute.

“Negligenza e imperizia medica non hanno consentito al paziente di avere un rallentamento nel decorso della malattia, privandolo dunque di avere una sopravvivenza più lunga e una migliore qualità della vita”.

Questa in sintesi la sentenza con la quale la ASL Roma H, ora Roma 6, è stata condannata al risarcimento record, che con gli interessi, ha sfiorato il milione di euro.

Leucemia fulminante: il paziente poteva essere salvato

Secondo quanto sostenuto dal medico legale di parte, qualora il paziente fosse stato trattato e stabilizzato, il decorso della malattia sarebbe stato bloccato. In ogni caso, quantomeno rallentato.

La malattia ematologica acuta, leucemia fulminante, è stata non diagnosticata dai sanitari dell’Ospedale di Anzio. Avevano, infatti, diagnosticato una semplice ‘colica renale’.

Certamente, un errore medico: la negligenza, imprudenza ed imperizia, che è costata la vita ad un giovane di 26 anni. Sì, perché S.M. aveva appena 26 anni, rientrato in casa, dopo due giorni, è sprofondato nel coma. Eppure, “i sintomi della leucemia erano chiaramente evidenti e la neoplasia facilmente diagnosticabile. Tuttavia, senza alcun esame strumentale, il paziente è stato dimesso, senza la presa in carico”, così, il medico legale di parte.

Diagnosi errata: fatale il ritardo nella diagnosi e delle cure

Un gravissimo errore medico costato la vita ad un ragazzo di appena 26 anni. S.M., quindi, è morto proprio per la negligenza dei medici in servizio al pronto soccorso dell’ospedale di Anzio e Nettuno. Il giorno in cui è arrivato con forti dolori all’addome doveva essere immediatamente trattato e stabilizzato.

Una diagnosi errata e ritardata che non ha permesso al giovane, che avrebbe potuto avere ancora tanti anni da vivere, tanti anni da potere dare e ricevere amore, di essere sottoposto a trasfusioni di plasma e piastrine. Questo trattamento avrebbe sicuramente permesso la sopravvivenza, ovvero maggiori chance di sopravvivenza, certamente maggiore a 5 giorni.

Una storia straziante: il paziente è dimesso senza cure

E’ il 4 dicembre di qualche anno fa. L’aria è gelida, le temperature quasi vicino lo zero. Si comincia a respirare aria di festa. Il Natale è vicino. Stefano è a casa. All’improvviso accusa lancinanti dolori all’addome. Spasmi che gli tolgono il respiro. Non ce la fa a resistere.

Stefano è giovane, solare, pieno di vita, non è ipocondriaco. Sta male sul serio. E’ in quel preciso momento che comincia il count down dei suoi ultimi cinque giorni.

Stefano è sorretto dai genitori. Sale in macchina e, insieme ai suoi affetti più cari, raggiunge il pronto soccorso dell’ospedale di Anzio e Nettuno. I medici lo visitano e poco dopo lo dimettono.

Sospetta colica reale sinistra”, questa la diagnosi. La cura? Antibiotici e riposo.

Diagnosi errata: il paziente in coma

Dopo due giorni S.M., mentre era a riposo a casa, come ‘prescritto’ dai medici dell’Ospedale di Anzio e Nettuno, perde conoscenza. Entra in un coma profondo dal quale non ne esce più perché muore dopo due giorni di ricovero nel reparto di rianimazione della casa di cura Città di Aprilia, trasportato d’urgenza nella struttura dai sanitari del 118. E’ nel pronto soccorso della clinica che i camici bianchi diagnosticano unaleucemia mieloide acuta.

Una patologia grave che sarebbe potuta essere accertata con un banale emocromo. Analisi di laboratorio, dunque, come stabilito dalle perizie mediche che hanno indotto il Tribunale di Velletri a pronunciare sentenza di condanna, riconoscendo quindi responsabilità medica, che avrebbero permesso la diagnosi.

Infatti, i risultati degli esami clinici, o meglio dell’emocromo, avrebbero evidenziato la leucemia. Infatti, sarebbero risultate completamente alterate. Così, avrebbero quindi messo in allerta i medici, capendo subito che la diagnosi di “sospetta colica renale” non poteva che essere errata.

Vittima di diagnosi errata: danno al paziente

S.M. con una patologia così grave non avrebbe potuto avere una vita lunghissima. Ma senza quel maledetto errore diagnostico, Stefano avrebbe sicuramente potuto avere la possibilità di essere sottoposto a trasfusioni di sangue e di piastrine. Un iter che permette ai malati ematologici di poter affrontare anche diversi cicli di chemioterapia. Ma tutto questo non è avvenuto a causa di una diagnosi errata.

E poi chissà se la vita avrebbe potuto riservargli anche una rinascita con un trapianto o un autotrapianto midollare. Chi può più dirlo, ora! A Stefano però, tutto questo è stato negato. Dai primi dolori, a chiudere per sempre gli occhi sono solo trascorse 120 ore. Le ultime, le più lunghe e interminabili che mamma e papà difficilmente dimenticheranno.

Lo squarcio nei cuori dei genitori, quella ferita che ha devastato la loro anima, rimarrà aperta per sempre. Un figlio non si dimentica. Un figlio continui ad amarlo anche non potendolo più accarezzare.

Diagnosi errata e risarcimento medico

Il diritto alla salute è il presupposto per l’esercizio di tutti gli altri diritti. Infatti, non vi può essere l’esercizio del diritto di libertà, piuttosto che del diritto al lavoro, se non si è in piena efficienza psicofisica. A maggior ragione, nel caso di S.M., che ha perso la vita proprio perché non è stato stabilizzato.

Recentemente tutta la normativa, in materia di responsabilità medica, ha trovato un definitivo assetto proprio in seguito alla c.d. Legge Gelli Bianco. Si tratta del riordino normativo di tutta la complessa materia della responsabilità medica, anche oltre la problematica del ritardo diagnostico.

Proprio il ritardo diagnostico è  uno dei temi fondamentali per quanto riguarda la responsabilità medica nei casi di mesotelioma, diagnosticati in ritardo. Questi profili sono stati attenzionati dall’ONA, che poi ha proseguito con la tutela anche per altri casi di errore medico.

Responsabilità medica in caso di diagnosi errata

Nel caso in cui ci si trovi di fronte ad errore diagnostico ed anche al ritardo nella diagnosi, sussiste il diritto al risarcimento di tutti i danni. Infatti, nel caso di S.M. il Tribunale di Velletri ha accolto la domanda di risarcimento del danno.

Il profilo più rilevante è proprio quello della responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, cui si aggiunge quello extracontrattuale.

Quindi, il paziente che subisce un danno può chiederne il risarcimento integrale. I danni risarcibili sono sia quelli non patrimoniali che patrimoniali.

Tra i primi, vi è il danno biologico, quello morale e quello esistenziale. Poi ci sono i danni economici. Inoltre, in caso di decesso, i familiari hanno diritto alla liquidazione di quanto maturato dal loro congiunto.

Risarcimento danni, diagnosi errata, errore medico

L’ONA – Osservatorio Nazionale Amianto, tutela quindi, anche i pazienti, senza dimenticare poi il ruolo importante dei medici, per l’assistenza sanitaria. In questa triste esperienza del Covid-19, il sistema sanitario nazionale e i sanitari hanno dato prova di capacità e dedizione. Per questi motivi, le azioni sono sempre intentate contro la struttura sanitaria e solo per ottenere il risarcimento del danno, in casi di effettiva responsabilità.

Consulenza, risarcimento danni diagnosi errata

Proprio perché non si può dimenticare il ruolo fondamentale dei medici, in particolare durante la pandemia Covid-19, nella quarta ondata del gennaio 2022, è necessario circoscrivere l’azione.

In sostanza, agire solo nei casi in cui vi sia un’effettiva responsabilità. Per questi motivi, si può approfondire sul tema malasanità proprio in questo sito.

Chiedi la tua consulenza legale gratuita errore medico, facendone richiesta scritta all’Associazione. Otterrete, gratuitamente, la consulenza legale gratis errore medico, con un parere completo con le norme ed i riferimenti giurisprudenziali. Così, in questo modo, sarà possibile orientarsi e determinarsi per agire per la tutela di diritti.

Diagnosi errata malattie amianto: tutela medica e legale

Nei casi di malattia asbesto correlata, in particolare in caso di mesotelioma, con ritardo diagnostico, è chiaro che c’è responsabilità. Ho, infatti, sempre sostenuto che la diagnosi precoce è fondamentale. L’esperienza mi ha dato sempre ragione. Sono centinaia i casi per i quali la diagnosi precoce ha evitato il peggio. In particolare, nei casi di mesotelioma e di tumore del polmone.

Infatti, per legge, coloro che sono stati esposti a cancerogeni, in particolare ad amianto, hanno diritto alla c.d. sorveglianza sanitaria. Il tutto, come stabilito dall’art. 259 del D. Lvo 81/08 (testo unico sulla sicurezza sul lavoro).

In questo modo, con queste misure di c.d. prevenzione secondaria, è possibile attenuare gli effetti delle esposizioni pregresse.

Per chiedere assistenza medica e legale ci si potrà rivolgere all’Associazione ONA: Tutela Legale ritardo diagnosi malattie asbesto correlate.

La tutela dei sanitari, vittime del Covid-19

In ogni caso, l’ONA supporta tutti i cittadini, dal punto di vista medico e legale. Con il recente Governo Draghi, sono stati implementati i fondi della sanità pubblica. Però, questo non è sufficiente. E’ indispensabile valorizzare il nostro personale medico e paramedico, adeguare le retribuzioni.

Per i nostri numerosi medici, infermieri ed altro personale medico che hanno subito danno per l’epidemia Covid-19, necessario anche il riconoscimento di vittima del dovere.

In questo momento particolare, se si fa riferimento ad una sentenza del Tribunale che condanna delle strutture sanitarie, non si può non ricordare il sacrificio dei nostri sanitari.

Questo non lo possiamo dimenticare. Ecco perchè, già nel marzo del 2020, quando cominciavano a morire con i loro pazienti, ne ho invocato la tutela.

Tanto è vero che, anche nella trasmissione di ONA Tv “lavoratori e tutele nell’era del coronavirus”, ne abbiamo parlato.

Mi sembra doveroso ed onesto, ricordare anche la memoria di tutti i nostri caduti nella guerra al Covid-19, che non si è ancora conclusa.

Convegno al Campidoglio: “Non abbandono i miei uomini esposti all’uranio impoverito” – Il racconto di una denuncia contro il sistema militare

Convegno al Campidoglio: "Non abbandono i miei uomini esposti all'uranio impoverito" – Il racconto di una denuncia contro il sistema militare

IL 2 OTTOBRE, NELLA SUGGESTIVA CORNICE DELLA SALA LAUDATO SÌ, ALL’INTERNO DEL PALAZZO SENATORIO DEL CAMPIDOGLIO, SI È SVOLTO UN CONVEGNO DAL FORTE IMPATTO EMOTIVO. ORGANIZZATO DALL’ACCADEMIA DELLA LEGALITÀ, PRESIEDUTO DALLA DOTT.SSA PAOLA VEGLIANTEI E PATROCINATO DA ROMA CAPITALE, L’INCONTRO HA ACCESO I RIFLETTORI SU UNO DEI PIÙ CONTROVERSI TEMI LEGATI ALLA SICUREZZA DEI SOLDATI ITALIANI IMPEGNATI NELLE MISSIONI ALL’ESTERO: L’ESPOSIZIONE ALL’URANIO IMPOVERITO. TRA I PROTAGONISTI DELL’EVENTO, OLTRE ALLA DOTT.SSA VEGLIANTEI, IL TENENTE COLONNELLO FABIO FILOMENI, AUTORE DEL LIBRO DENUNCIA “NON ABBANDONO I MIEI UOMINI ESPOSTI ALL’URANIO IMPOVERITO”, CHE HA ISPIRATO IL DIBATTITO. PREZIOSO IL CONTRIBUTO DELL’AVV. DANIELA SEGAT E DEL GIORNALISTA ETTORE LEMBO

La sicurezza dei militari sotto i riflettori del convegno

Non abbandono i miei uomini esposti all’uranio impoverito”, l’ultimo libro del tenente colonnello Fabio Filomeni, è una denuncia coraggiosa sul tema della sicurezza dei militari italiani impegnati in missioni all’estero, in particolare riguardo l’esposizione all’uranio impoverito e alle sue devastanti conseguenze. 

Il testo si basa sull’esperienza diretta dell’autore e mette in evidenza gravi mancanze nel sistema di protezione dei soldati italiani impegnati in missioni all’estero. Filomeni ha infatti ricoperto un ruolo di fondamentale importanza come responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, assicurando che i militari fossero informati e protetti adeguatamente.

Tra le missioni più critiche cui ha partecipato, spicca quella in Iraq, dove il contingente italiano faceva parte della coalizione internazionale anti-Isis. L’obiettivo di questa operazione era stabilizzare le aree precedentemente controllate dai jihadisti, operazione che, però, nascondeva pericoli letali, tra cui l’esposizione a sostanze tossiche come l’uranio impoverito utilizzato nelle munizioni. 

Filomeni aveva già trattato questi argomenti nel suo libro precedente, “Baghdad: Ribellione di un Generale“, in cui descriveva le manovre militari durante la missione Prima Parthica in Iraq nel 2018. Questo libro aveva già messo in evidenza il silenzio dei vertici militari italiani su tali questioni.

Il contesto del convegno e la denuncia del tenente colonnello Fabio Filomeni

Il tema centrale del convegno è stato l’esposizione dei militari italiani all’uranio impoverito durante le cosiddette “missioni di pace“, che di pacifico avevano ben poco. Nello specifico, il tenente colonnello Fabio Filomeni, ha affrontato con fermezza questioni riguardanti le gravi carenze nella protezione della salute dei soldati italiani impiegati in scenari bellici come Iraq, Balcani e Afghanistan. 

Durante le operazioni militari, i militari erano costantemente a contatto con sostanze tossiche, tra cui il cosiddetto “depleted uranium” (uranio impoverito). Nonostante numerosi studi scientifici avessero già evidenziato il legame tra l’inalazione di queste particelle pericolose e l’insorgenza di gravi patologie, molti soldati sono stati esposti a tali rischi senza misure di protezione adeguate.

Filomeni, ha voluto rompere il silenzio su un tema scomodo, mettendo in evidenza una responsabilità che coinvolge non solo le gerarchie militari, ma anche l’intero sistema di gestione delle missioni all’estero, dove le conseguenze della contaminazione radioattiva sono state minimizzate a lungo, nonostante i danni irreversibili causati ai soldati.

Ma perché l’uranio impoverito è così pericoloso? 

I danni dell’uranio impoverito 

Questa sostanza, usata per migliorare la capacità penetrativa dei proiettili, ha conseguenze devastanti non solo sui bersagli, ma anche sull’ambiente e sulle persone del posto o che vi operano. Quando queste munizioni colpiscono l’obiettivo, l’esplosione rilascia nell’aria e nel terreno nanoparticelle di metalli pesanti che contaminano ampie zone, compromettendo aria, acqua e suolo. I militari e i civili presenti nelle aree colpite inalano e ingeriscono attraverso cibi contaminati queste particelle tossiche, con il rischio di sviluppare malattie gravi come tumori, leucemie e malformazioni.

Le inchieste condotte a livello internazionale e nazionale hanno confermato che migliaia di militari, al ritorno dalle missioni, hanno sviluppato gravi patologie, in molti casi letali: ad oggi, 382 militari italiani hanno perso la vita a causa di malattie correlate a questa esposizione, e oltre 7mila risultano gravemente ammalati.

Il muro di gomma istituzionale

Purtroppo, nonostante numerosi tentativi di far emergere la questione, le istituzioni militari italiane hanno spesso eretto un “muro di gomma” per proteggere l’apparato. Quattro commissioni parlamentari d’inchiesta e molteplici studi scientifici non sono riusciti a smuovere le resistenze dei vertici militari, che continuano a minimizzare i rischi e a mantenere il silenzio sui veri danni causati dall’uranio impoverito.

In questo clima di negligenza e omertà, il libro di Filomeni e il convegno al Campidoglio rappresentano un passo importante per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sulla necessità di tutelare la salute dei militari. Come sottolineato dall’a dottoressa Vegliantei, «Abbiamo giurato e baciato la nostra bandiera per servire il nostro popolo, la nostra Patria e le nostre famiglie. La sicurezza sul lavoro anche dei nostri militari non può essere messa in secondo piano».

L’emozione del dibattito

Durante il convegno, l’atmosfera è diventata particolarmente animata. Giornalisti, medici, avvocati e militari, tra cui diversi comandi dell’Arma dei Carabinieri di Roma e dei paesi limitrofi, hanno espresso la loro preoccupazione e il desiderio di far luce su queste gravi omissioni. 

In particolare, è emersa con urgenza la necessità di rivedere e potenziare la normativa sulla sicurezza sul lavoro per i militari. I partecipanti hanno messo in evidenza come questi uomini e donne, nonostante il loro instancabile impegno e dedizione, siano frequentemente percepiti come “guerrieri bellicosi” anziché come vittime di un sistema che li espone a rischi mortali. Inoltre, hanno sottolineato l’importanza di portare questa tematica nelle scuole e nella società civile, per aumentare la consapevolezza e sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli ai quali sono sottoposti i nostri soldati.

«Vitale è migliorare le norme sulla sicurezza, importantissimo creare delle opportunità per fare conoscere questa nostra storia anche nelle scuole».Queste parole cariche di significato hanno sottolineato la gravità della situazione, ribadendo l’importanza di una maggiore sensibilizzazione sui rischi corsi dai militari in missione.

L’Osservatorio Nazionale Amianto e la lotta all’uranio impoverito

L’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto (ONA), ha a lungo denunciato i devastanti effetti dell’uranio impoverito sulla salute dei militari italiani. In diverse occasioni, Bonanni ha sottolineato l’importanza di riconoscere le responsabilità delle istituzioni nel proteggere i lavoratori delle Forze Armate esposti a sostanze tossiche durante le missioni, spesso senza adeguate misure di sicurezza.

«Non possiamo ignorare il grido di sofferenza di tanti uomini e donne che hanno servito il loro Paese con onore, solo per vedersi abbandonati di fronte a malattie devastanti come il cancro», ha dichiarato il legale. «L’uranio impoverito è stato impiegato senza la dovuta considerazione per gli effetti sulla salute, portando a un vero e proprio disastro umano».

L’ONA si impegna in prima linea per ottenere giustizia per i militari colpiti e le loro famiglie, assistendo molti di loro in cause legali che hanno portato a risarcimenti significativi. Bonanni ricorda che ci sono state oltre 130 sentenze che hanno riconosciuto la correlazione tra esposizione all’uranio impoverito e gravi patologie oncologiche.

Nonostante questi progressi, il presidente ONA denuncia il persistere di una negazione da parte delle istituzioni, nonostante le evidenze scientifiche e le testimonianze. «Abbiamo il dovere di non dimenticare chi è stato sacrificato e di lottare affinché le nuove generazioni di militari non debbano affrontare lo stesso destino».

Fincantieri condannata: risarcimento milionario per la morte di un dipendente esposto all’amianto a Castellammare di Stabbia 

Fincantieri condannata: risarcimento milionario per la morte di un dipendente esposto all’amianto a Castellammare di Stabbia

IL TRIBUNALE DI TORRE ANNUNZIATA – SEZIONE LAVORO – HA EMESSO UNA SENTENZA DI CONDANNA CONTRO FINCANTIERI IN RELAZIONE ALL’AMIANTO PRESENTE NEI CANTIERI NAVALI DI CASTELLAMMARE. QUESTA DECISIONE GIURIDICA HA PORTATO AL RICONOSCIMENTO DI UN RISARCIMENTO DI CIRCA UN MILIONE DI EURO, DESTINATO AI FAMILIARI DI UN OPERAIO DECEDUTO A CAUSA DELLE CONSEGUENZE PROFESSIONALI LEGATE ALL’ESPOSIZIONE A QUESTO MATERIALE TOSSICO. LA SENTENZA SEGNA UN’IMPORTANTE VITTORIA PER LA GIUSTIZIA IN MERITO ALLA SALUTE E ALLA SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO. EVIDENZIA ALTRESÌ LA NECESSITÀ DI PROTEGGERE I LAVORATORI DA SOSTANZE PERICOLOSE E DI GARANTIRE AMBIENTI LAVORATIVI SALUBRI. A DIFENDERE I FAMILIARI DELLA VITTIMA, L’AVV. EZIO BONANNI, PRESIDENTE DELL’OSSERVATORIO NAZIONALE AMIANTO

Amianto nei cantieri navali Fincantieri a Castellammare: la storia di una vittima

La sentenza del tribunale ha messo in luce la tragica storia di un operaio, scomparso prematuramente nel 2019 a soli 58 anni a causa di un mesotelioma pleurico, una forma aggressiva di cancro legata all’esposizione all’amianto. L’uomo, il cui tragico destino si è compiuto dopo anni di lavoro nei cantieri navali, aveva operato nello stabilimento di Castellammare di Stabia (Napoli) dal 1977 al 1981. Durante la sua carriera, aveva svolto diversi mansioni, tra cui sabbiatore, pavimentista, verniciatore e manovale, immergendosi in un ambiente di lavoro caratterizzato da una massiccia presenza di asbesto.

Sin dagli anni ‘60, il minerale era diventato una costante nei cantieri navali, ampiamente utilizzato per le sue proprietà di isolamento termico e resistenza al fuoco. Tuttavia, questa sostanza tossica si è rivelata letale per molti lavoratori, che si sono trovati a contatto con sottilissime fibre killer disperse in ogni comparto delle navi. In particolare, il lavoratore aveva manipolato amianto friabile in locali privi di adeguati impianti di aerazione e senza dispositivi di protezione individuale, come mascherine e tute monouso, strumenti fondamentali per ridurre l’inalazione delle pericolose polveri. 

La perizia del CTU

Le condizioni di lavoro erano altamente rischiose, come evidenziato dalla perizia del CTU (consulente tecnico d’ufficio).

Quest’analisi ha rivelato che il lavoratore aveva subito un’esposizione diretta a materiali contenenti eternit, utilizzato in varie parti delle navi: dalle coibentazioni alle tubature, dalle pareti ai vani motore, senza trascurare le cuccette di bordo delle imbarcazioni sia militari sia civili. La mancanza di misure di sicurezza adeguate ha ulteriormente aggravato la sua situazione lavorativa, rendendo il contesto ancora più drammatico. Grazie a questa approfondita perizia, il tribunale ha potuto riconoscere un chiaro nesso causale tra l’esposizione professionale e l’insorgenza della malattia, portando alla condanna di Fincantieri per la responsabilità nei confronti della salute del lavoratore.

Si legge in sentenza: «alla luce delle modalità operative con cui si svolgeva la movimentazione dell’amianto, la società convenuta risulta aver omesso di predisporre tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore sul luogo di lavoro, atteso che tutte le operazioni che implicavano l’esposizione ad inalazione di amianto venivano effettuate sostanzialmente senza alcuna effettiva precauzione volta ad evitare o ad abbattere l’inalazione di polveri contenti amianto».

L’ONA a fianco delle vittime di amianto 

L’azienda cantieristica navale ora dovrà risarcire i familiari, assistiti dal presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto, Avv. Ezio Bonanni per circa un milione di euro. «Si tratta di una sentenza storica perché riconosce un maxi risarcimento per i familiari, e, oltre all’esposizione professionale, per la prima volta è stata riscontrata anche quella domestica, perché anche il padre che ha lavorato nello stesso cantiere è deceduto per mesotelioma. Un traguardo significativo verso la giustizia per le vittime di amianto» – sottolinea Bonanni.

Ad oggi, ONA ha seguito diversi procedimenti legali contro Fincantieri, come La Spezia e Monfalcone, dove numerosi lavoratori hanno riportato malattie gravi legate all’amianto, con centinaia di decessi registrati. Le condizioni di lavoro estremamente pericolose e l’assenza di adeguate misure di sicurezza e protezione, hanno esposto i lavoratori a rischi significativi dal 1960 fino agli anni ’90, con l’entrata in vigore della legge 257/92.

Il crescente numero di casi di mesotelioma e altre patologie legate all’amianto nella regione Campania e non solo, continua a essere una questione preoccupante. 

L’ONA non si limita a fornire assistenza legale; ha istituito anche un servizio di supporto sanitario per coloro che hanno ricevuto l’infausta diagnosi, raggiungibile attraverso il numero verde 800 034 294 e lo sportello telematico

Le ferite nascoste dei Balcani: il caso del Colonnello Carlo Calcagni e la denuncia di Ezio Bonanni al convegno di Udine

Calcagni
Le ferite nascoste dei Balcani: il caso del Colonnello Carlo Calcagni e la denuncia di Ezio Bonanni al convegno di Udine

NEI GIORNI SCORSI UDINE HA OSPITATO IL CONVEGNO “MORTI DA NASCONDERE – LA SINDROME DEI BALCANI” INCENTRATO INTERAMENTE SULLE VITTIME DELL’URANIO IMPOVERITO DURANTE IL CONFLITTO

Uranio impoverito: le ferite nascoste

Il convegno ha visto la partecipazione di personalità di spicco, tra cui il Colonnello di Ruolo, Carlo Calcagni, esposto a contaminazione e l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto (ONA).

L’avvocato Bonanni, durante il suo intervento, ha denunciato l’inadeguata protezione dei militari italiani impegnati nelle missioni nei Balcani, accusando lo Stato di aver occultato i pericoli dell’uranio impoverito: «La contaminazione da uranio impoverito ha colpito circa settemila militari, provocando oltre cinquecento morti», ha dichiarato il presidente dellOsservatorio Nazionale Amianto. Ha inoltre sottolineato come la negligenza istituzionale e la mancanza di dispositivi di protezione abbiano esacerbato le condizioni di salute dei soldati. Nonostante le perizie mediche e le cause legali, «il ministero della Difesa continua a negare le proprie responsabilità».

Uno dei casi più emblematici, affrontato durante l’incontro, è quello del Colonnello di Ruolo Carlo Calcagni, che nel 1996 fu inviato in missione di pace nei Balcani sotto l’egida delle Nazioni Unite.

Il suo racconto, mette in luce le falle di un sistema che, per anni, ha negato ai propri soldati le informazioni e la protezione necessarie per affrontare i rischi legati a materiali tossici come l’uranio impoverito. Il militare ha combattuto non solo sul campo di battaglia ma anche contro la burocrazia, ottenendo infine il riconoscimento della sua malattia come “dipendente da causa di servizio”.

Carlo Calcagni: il prezzo del silenzio di Stato e il coraggio di un uomo

La storia del Colonnello Carlo Calcagni, inviato in missione di pace nei Balcani, è quella di un soldato che, tornato dalla guerra, ha trovato non solo malattia e dolore ma anche l’indifferenza delle istituzioni che lo avevano mandato al fronte. La sua lotta continua ancora oggi, una battaglia personale contro le conseguenze dell’uranio impoverito, le ferite e il silenzio di chi avrebbe dovuto proteggerlo.

Ricostruiamo la storia dell’eroico militare

Nel 1996, Carlo Calcagni, all’epoca pilota operativo di elicotteri effettivo presso il 20° Gruppo Squadroni “Andromeda” dell’Aviazione dell’Esercito Italiano, con sede all’aeroporto di Pontecagnano (SA), fu inviato in Bosnia-Herzegovina, uno dei teatri più sanguinosi della guerra nei Balcani. Durante le missioni internazionali della NATO, ufficialmente denominate “operazioni di pace” sotto mandato delle Nazioni Unite, i soldati partecipavano attivamente in aree di conflitto con l’obiettivo di stabilizzare territori devastati dalla guerra.

Tuttavia, queste operazioni nascondevano un’insidia mortale: l’utilizzo di armamenti all’uranio impoverito da parte dell’esercito americano.

Il pericolo delle polveri invisibili

Queste polveri, invisibili e altamente tossiche, si disperdevano nell’aria e nel terreno, contaminando tutto ciò che entrava in contatto con esse, incluse l’acqua e l’atmosfera respirata dai militari. I soldati, senza adeguate protezioni, venivano esposti a questo pericoloso agente tossico. Una volta inalate o ingerite, le nanoparticelle iniziavano a intaccare irreversibilmente l’organismo, colpendo gli organi vitali e aumentando esponenzialmente il rischio di sviluppare gravi malattie come tumori, leucemie e insufficienze multiorgano.

Purtroppo, né il Colonnello Calcagni né i suoi colleghi furono informati dei pericoli cui andavano incontro. L’Esercito Italiano, pur consapevole dell’uso di questi armamenti, non avvisò i propri uomini delle possibili conseguenze per la loro salute.

Quando Carlo Calcagni rientrò dalla missione, iniziò a sviluppare sintomi preoccupanti: stanchezza cronica, difficoltà respiratorie e una serie di disturbi che, con il passare del tempo, si sarebbero rivelati segnali di una malattia degenerativa grave. La diagnosi fu devastante: contaminazione da uranio impoverito. In breve tempo, il Colonnello si trovò costretto a lasciare la sua vita da soldato per affrontare una nuova guerra, quella contro la malattia.

Un eroe dimenticato dallo Stato

Oggi, Carlo Calcagni è invalido al 100, costretto a convivere con una condizione fisica sempre più compromessa. «Sopravvivo grazie alle terapie, ma vivo grazie allo sport e all’impegno nel sociale», ha affermato il Colonnello.

L’uomo, nonostante la malattia, continua a combattere per il riconoscimento dei diritti dei suoi colleghi.

Ma la malattia non è stata l’unica prova che ha dovuto affrontare. Forse, la battaglia più amara è quella contro l’indifferenza dello Stato. Nonostante l’evidenza scientifica e la testimonianza di migliaia di altri militari colpiti dagli stessi problemi, l’Italia non ha mai riconosciuto formalmente le proprie responsabilità. Anzi, ha spesso evitato di ammettere apertamente il legame tra le missioni nei Balcani e le patologie riscontrate nei suoi soldati.

Sono oltre settemila i militari italiani che, come Calcagni, al ritorno dalla Bosnia e da altri scenari internazionali, hanno sviluppato malattie gravissime. Eppure, nonostante questi numeri, le risposte tardano ad arrivare. Nessuna giustizia per coloro che, in nome della patria, hanno sacrificato non solo la propria salute ma anche il proprio futuro.

Il coraggio di andare avanti: una vita dedicata alla verità

Carlo Calcagni, nonostante l’invalidità, ha scelto di non arrendersi. Ogni giorno combatte non solo contro il deterioramento del suo corpo, ma anche contro un sistema che lo ha abbandonato. La sua forza d’animo e il suo spirito di servizio rimangono inalterati. Nel suo cuore, il Colonnello resta un soldato, impegnato in una nuova missione: sensibilizzare l’opinione pubblica, dare voce a chi come lui ha subito in silenzio, e chiedere giustizia per sé e per gli altri. Attraverso interviste, testimonianze e un’attività incessante di denuncia, continua a lottare per portare alla luce la verità e per far sì che la storia non si ripeta.

Riflessioni sociali ed economiche: il peso del silenzio e le ferite nascoste

La vicenda di Calcagni solleva questioni di fondamentale importanza. Da una parte, c’è la responsabilità morale dello Stato verso i propri cittadini e, in particolare, verso chi ha lo ha servito con lealtà e dedizione. Il rifiuto di riconoscere gli errori commessi non solo ferisce le vittime, ma mina la fiducia delle persone nelle istituzioni.

Dall’altra, c’è il peso economico di questa tragedia: le cure necessarie per i militari malati sono estremamente costose e spesso gravano interamente sulle famiglie. In molti casi, queste famiglie si trovano sole ad affrontare non solo il dramma della malattia, ma anche le difficoltà finanziarie che ne derivano. Le indennità previste sono spesso insufficienti e arrivano con ritardi che, per chi vive una battaglia quotidiana contro la malattia, sono intollerabili.

La storia di Carlo Calcagni è un monito, un richiamo alla necessità di affrontare con trasparenza e giustizia il passato. Le sue ferite, sia fisiche sia morali, raccontano il prezzo altissimo che può essere richiesto a chi serve lo Stato. Ma la sua determinazione rappresenta anche un esempio di come, nonostante tutto, si possa continuare a lottare per la verità e la dignità.

Una lotta che continua. Bonanni chiede trasparenza 

Bonanni, in chiusura del convegno, ha ribadito l’urgenza di un cambiamento: «Non possiamo più accettare che le vite dei nostri militari vengano sacrificate in questo modo, senza trasparenza, senza tutela, e senza che nessuno si assuma le proprie responsabilità». Il convegno di Udine ha così aperto un nuovo capitolo in questa lunga lotta, mettendo ancora una volta sotto i riflettori una tragedia che non può più essere ignorata.

In un Paese che si proclama democratico e giusto, il silenzio di fronte a tragedie come questa non è accettabile. La vicenda di Calcagni, le ferite profonde e gli strascichi derivanti, ci invitano a riflettere sul significato dell’onore e del sacrificio e su quanto siamo disposti a fare per riconoscerlo a chi, come lui, ha dato tutto per il bene comune.

Siglato il Protocollo tra Garante regionale della Salute della Calabria e Osservatorio Nazionale Amianto: intervista al coordinatore ONA Massimo Alampi

Siglato il Protocollo tra Osservatorio Nazionale Amianto e Garante regionale della Salute della Calabria: intervista al coordinatore ONA Massimo Alampi

IL 27 SETTEMBRE 2024, NELLA PRESTIGIOSA CORNICE DI PALAZZO CAMPANELLA A REGGIO CALABRIA, SI È TENUTO UN IMPORTANTE CONVEGNO INTITOLATO “QUALITÀ DELL’AMBIENTE E RISCHI PER LA SALUTE” AL CENTRO DELL’ATTENZIONE IL TEMA URGENTE DELLA TUTELA AMBIENTALE E DEI PERICOLI PER LA SALUTE DERIVANTI DA INQUINAMENTO E ABBANDONO DI RIFIUTI TOSSICI. SIGLATO UN PROTOCOLLO D’INTESA TRA L’UFFICIO DEL GARANTE REGIONALE DELLA SALUTE E L’OSSERVATORIO NAZIONALE AMIANTO (ONA) DI REGGIO CALABRIA, COORDINATO DA MASSIMO ALAMPI. L’ATTO SANCISCE UNA NUOVA ALLEANZA PER AFFRONTARE LE EMERGENZE AMBIENTALI E SANITARIE CHE AFFLIGGONO IL TERRITORIO

Personaggi di spicco a convegno 

L’incontro calabrese, coordinato dalla Garante Anna Maria Stanganelli, ha visto la presenza di figure di spicco come il dr. Giovanni Tripepi del CNR, che ha aperto i lavori. La discussione ha toccato i gravi danni provocati dagli incendi tossici, spesso causati dall’abbandono di rifiuti pericolosi nei quartieri di San Gregorio, Marconi e Mosorrofa. Il Comitato di Quartiere Mosorrofa, rappresentato da Pasquale Andidero, ha portato alla luce il punto di vista dei cittadini, costretti a convivere con una situazione di degrado ambientale che mina la loro salute.

La firma del Protocollo d’intesa tra il Garante e l’ONA, rappresenta un ulteriore passo avanti nella battaglia contro l’asbesto, un pericolo silenzioso ma letale per la salute pubblica. Massimo Alampi, impegnato da tempo nella sensibilizzazione delle istituzioni locali, ha sottolineato l’importanza di questo accordo, che pone le basi per interventi più efficaci nella bonifica e nella tutela delle comunità colpite. 

Tra gli altri interventi significativi, il dr. Ivan Ammoscato del CNR di Lamezia Terme ha analizzato le conseguenze nocive degli incendi tossici, mentre il dr. Ferdinando Laghi, vicepresidente dell’International Society of Doctors for the Environment (ISDE), ha discusso la correlazione tra ambiente e salute, con un particolare focus sui processi di combustione. Il dr. Francesco Caridi dell’Università di Messina ha invece chiuso i lavori con una relazione sul rischio radiologico e la radioattività, argomenti strettamente legati alla protezione ambientale.

Intervista al coordinatore regionale ONA Calabria, Massimo Alampi

Per approfondire ulteriormente il ruolo nevralgico svolto dall’Osservatorio Nazionale Amianto in Calabria e l’importanza della recente firma del protocollo con il Garante regionale della Salute, abbiamo intervistato Massimo Alampi, coordinatore dell’ONA nella regione, figura di spicco nella lotta contro il pericoloso minerale e nella tutela della salute pubblica. Attraverso le sue parole, esploreremo in dettaglio le sfide affrontate dalle comunità locali, il percorso che ha portato alla sigla di questo accordo, e le prospettive future di questo importante impegno per la sostenibilità e la prevenzione ambientale

Quali circostanze specifiche hanno portato alla nascita del protocollo dintesa tra il Garante della Salute Regione Calabria e lONA e da chi è partita liniziativa di affrontare in modo più sistematico il problema dellesposizione all’amianto e alle altre sostanze tossiche?

L’intesa tra l’Ufficio del Garante regionale della Salute e l’Osservatorio Nazionale Amianto (ONA) nasce da un obiettivo comune e imprescindibile: la tutela della salute pubblica, un valore che deve rimanere prioritario in ogni ambito. Il percorso che ha condotto alla firma del protocollo è iniziato con una richiesta formale da parte dell’ONA di Reggio Calabria, che ha sollecitato un intervento autorevole e deciso della Garante per affrontare una grave problematica legata alla presenza di amianto nel territorio reggino.

Nel corso del primo incontro, l’urgenza di intervenire sulle aree più esposte è stata riconosciuta e discussa con attenzione. Da questo confronto è emersa l’esigenza di formalizzare un’azione congiunta che potesse garantire un intervento sistematico e continuativo. Successivamente, durante un secondo incontro ravvicinato, è stata avanzata la proposta di un protocollo d’intesa da parte del Garante, un passaggio fondamentale che ha segnato l’inizio di una collaborazione volta a rafforzare le attività di bonifica e prevenzione sul territorio.

Il protocollo siglato fra il Garante della salute e ONA: un’iniziativa replicabile?

Il protocollo appena siglato è una risposta a una necessità locale o un modello che potrebbe essere esportato in altre regioni?

Questa è una bella domanda, in molte dichiarazioni, ho definito la città di Reggio Calabria, “La Repubblica dell’amianto”, ma non aggiungo altro, dobbiamo andare oltre, le criticità si devono affrontare.

Non sono stanco dalla battaglia che ogni giorno mi trovo davanti, ma sicuramente sono provato dal peso della scia di vittime e malati a Reggio Calabria ancora oggi nel 2024.

Misure e azioni da mettere in campo

Quali sono le specifiche misure previste nel protocollo dintesa per garantire un monitoraggio efficace della salute pubblica in Calabria?

Innanzitutto, vorrei evidenziare quanto scritto nell’articolo de “Il Quotidiano del Sud” del 28 settembre 2024. «Storicamente rilevante è stata la firma del protocollo d’intesa tra il Garante della Salute della Regione Calabria e l’ONA di Reggio Calabria». È la verità, «hanno vinto i cittadini». Cosa cambierà? Ci sarà una rivoluzione. 

L’uragano Anna Maria Stanganelli come da protocollo, avrà accesso a tutte le segnalazioni che perverranno all’ONA di RC, partendo da quelle pervenute sull’app dedicata “Mappatura Amianto” (scaricabile gratuitamente su PlayStore), via mail ona.reggiocalabria@gmail.com, via PEC onareggiocalabria@pec.it, via whatsapp con numero dedicato +39 350 081 2399 coinvolgendo e segnalando a tutte le Istituzioni preposte, con l’obbiettivo di sensibilizzare le stesse ai provvedimenti del caso. Avremo la certezza che le istanze dei cittadini saranno prese in considerazione. Ribadisco, che è una vittoria dei cittadini.

Il coinvolgimento delle comunità locali

In che modo il protocollo prevede di coinvolgere le comunità locali nella gestione delle problematiche legate all’amianto?

La sensibilizzazione dei cittadini è la base di partenza, anche se tutti sanno della nocività e tossicità di questo micidiale cancerogeno c’è la necessità di partecipazione attiva e coinvolgimento della popolazione con campagne di sensibilizzazione e convegni specifici sulla problematica.

Per questo motivo verrà inaugurato uno sportello amianto, promosso dall’ONA, un’iniziativa pensata per rispondere in modo concreto alle richieste e alle esigenze dei cittadini riguardo alle problematiche legate all’asbesto. Questo nuovo punto di riferimento rappresenterà non solo un servizio di consulenza e supporto, ma anche un’opportunità per rafforzare la sinergia con la Garante della Salute. Insieme, queste istituzioni lavoreranno per garantire una maggiore tutela e sensibilizzazione in materia di salute pubblica, ponendo particolare attenzione ai rischi legati all’esposizione al cancerogeno.

Ritiene che la collaborazione tra ONA e istituzioni locali possa portare a un reale cambiamento nella gestione delle malattie professionali?

La volontà di coinvolgere le Istituzioni c’è sempre stata, le proposte sono state già ampiamente fatte in questi anni, sempre nel rispetto dei ruoli e senza mai prevaricare la sovranità delle stesse, ma non sono state prese in considerazione fino a questo momento, chissà…

Risorse finanziarie

Che tipo di risorse e finanziamenti sono necessari per attuare le strategie delineate nel protocollo?

Nessuna risorsa e nessun finanziamento, l’ONA di Reggio Calabria svolge la mission gratuitamente, confidiamo solo nelle risorse umane per contribuire a rendere l’ambiente più vivibile.

Aspettative future

Quali sono le sue aspettative riguardo alla sensibilizzazione del pubblico e delle istituzioni sul tema delle malattie legate alle esposizioni tossiche?

La strada da percorrere è tortuosa, ma, sulla problematica amianto e cancerogeni, ci sarà un cambiamento importante che comunque c’è già stato. Infatti, è di pochi giorni fa, la notizia della bonifica amianto nel quartiere di Arghillà (RC) a seguito di un autorevole intervento della Garante della Salute della regione Calabria. La prevenzione primaria quindi la bonifica, è il primo passo fondamentale. «L’unica fibra di amianto che non fa male, è quella che non respiri».

Qual è la sua visione a lungo termine per la Calabria in relazione allamianto e alla salute pubblica?

Non sono un visionario, si parte da Reggio Calabria, si farà un passo alla volta ma saranno tanti i passi. 

Dall’altra parte, è certo che gli enti e le Istituzioni preposte dovranno tenere lo stesso passo della Garante della Salute e dell’Osservatorio Nazionale Amianto.

Il commento dell’avv. Ezio Bonanni, presidente ONA

«Sono lieto che sia stato siglato questo protocollo d’intesa che costituisce un momento importante e centrale per la prevenzione primaria, la salvaguardia della salute pubblica e la protezione ambientale – dichiara il presidente ONA, avv. Ezio Bonanni -. È fondamentale la bonifica per evitare altre esposizioni e quindi altri danni alla salute. Questa collaborazione non è solo una dimostrazione di responsabilità istituzionale, ma un intervento concreto in difesa delle comunità locali, che da tempo subiscono le conseguenze dell’amianto e dell’inquinamento da sostanze nocive. L’intesa conferma che la lotta per un territorio più sicuro e la prevenzione delle patologie legate a esposizioni tossiche è non solo possibile, ma necessaria. Grazie all’impegno congiunto, e con il supporto attivo della cittadinanza, possiamo davvero avviare un cambiamento significativo per il futuro della Calabria».

ONA e Accademia della legalità a Udine. “Morti da Nascondere – La Sindrome dei Balcani”

ONA e Accademia della legalità a Udine. “Morti da Nascondere - La Sindrome dei Balcani”

IL 27 SETTEMBRE 2024, A PALAZZO KECHLER DI UDINE, SI È SVOLTO UN IMPORTANTE CONVEGNO NAZIONALE DAL TITOLO “MORTI DA NASCONDERE – LA SINDROME DEI BALCANI”, ORGANIZZATO DALL’OSSERVATORIO NAZIONALE AMIANTO E DALL’ACCADEMIA DELLA LEGALITÀ. AL CENTRO DEL DIBATTITO, LA DRAMMATICA VICENDA DEI MILITARI ITALIANI ESPOSTI ALL’URANIO IMPOVERITO E ALTRE SOSTANZE TOSSICHE DURANTE LE MISSIONI NEI BALCANI E LE GRAVI CONSEGUENZE SULLA LORO SALUTE. TRA I RELATORI, L’AVVOCATO EZIO BONANNI, PRESIDENTE ONA, HA PORTATO ALL’ATTENZIONE CASI EMBLEMATICI COME QUELLO DELL’ALPINO SERGIO CABIGIOSU, CHE HA OTTENUTO IL RICONOSCIMENTO LEGALE DI “VITTIMA DEL DOVERE” A CAUSA DELLE GRAVI PATOLOGIE CORRELATE ALL’ESPOSIZIONE ALL’URANIO IMPOVERITO E ALL’AMIANTO. LA DISCUSSIONE HA VISTO ANCHE INTERVENTI SIGNIFICATIVI DEL COLONNELLO CARLO CALCAGNI E DELLA PRESIDENTE DELL’ACCADEMIA DELLA LEGALITÀ, PAOLA VEGLIANTEI

La Sindrome dei Balcani: un focus ONA sul disastro invisibile

Il convegno, ha rappresentato una rara occasione di dibattito pubblico sul tema delle malattie contratte dai militari italiani a causa dell’esposizione a uranio impoverito, amianto e nanoparticelle di metalli pesanti. Oltre all’avvocato Bonanni, la fisica e nanopatologa Antonietta Gatti, Gianandrea Gaiani, direttore Analisi Difesa, Fabio Carlone, responsabile del dipartimento vittime del dovere del sindacato SUM, Mariano Pecoraro, padre del paracadutista Emanuele Pecoraro, deceduto dopo una missione. E ancora, il tenente degli alpini, Sergio Cabigiosu e il neuro psicologo Enzo Kermol.

A coordinare i lavori, Marika Diminutto. Tutti gli interventi hanno evidenziato una tragica realtà: le morti e le malattie legate alle missioni militari sono il risultato di una sistematica negligenza istituzionale.

L’intervento del presidente ONA Ezio Bonanni: una lotta contro il silenzio di stato e le cifre dell’ingiustizia

L’avvocato Ezio Bonanni (ONA), da anni in prima linea nella difesa dei diritti dei militari, ha centrato il suo intervento sulla drammatica mancanza di prevenzione e tutela da parte del ministero della Difesa. Bonanni ha offerto dati impressionanti che fotografano la gravità della situazione: «Sono settemila i militari che si sono ammalati e cinquecento quelli che hanno perso la vita a causa dellesposizione a sostanze tossiche durante le missioni». Questo bilancio tragico, ha spiegato, «è la conseguenza diretta di una gestione superficiale e negligente da parte delle istituzioni militari».

Secondo il presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto, i soldati sono stati esposti a «un cocktail di sostanze cancerogene, tossiche e mutagene» senza adeguate misure di protezione, e la somministrazione di vaccini prima delle missioni ha ulteriormente compromesso il loro sistema immunitario. «Le sostanze, i metalli pesanti, e i vaccini somministrati in maniera ravvicinata hanno indebolito i militari, esponendoli a rischi gravissimi», ha dichiarato, puntando il dito contro la mancanza di valutazioni mediche approfondite prima e dopo le missioni.

Danni intergenerazionali e civili

Nel suo intervento, l’avvocato ha messo in luce anche un altro aspetto trascurato: le conseguenze sulla popolazione civile delle aree in cui i militari sono stati impiegati. «Il problema non riguarda solo i militari – ha sottolineato Bonanni – ma anche i civili e le future generazioni che vivranno nelle regioni contaminate da queste sostanze tossiche». Le sue parole fanno in sostanza emergere un dramma a lungo termine, che potrebbe colpire intere comunità esposte agli stessi cancerogeni.

La vicenda del tenente degli alpini Sergio Cabigiosu 

Bonanni ha inoltre ricordato alcune delle più significative vittorie legali ottenute in tribunale. Tra queste, ha citato la sentenza del Consiglio di Stato n. 837 del 2016, che ha riconosciuto la correlazione tra l’esposizione dei militari a nanoparticelle e vaccini e l’insorgenza di gravi patologie. Ha quindi riportato la vicenda del tenente di fanteria alpino Sergio Cabigiosu, una storia che ha segnato un importante precedente nella giurisprudenza italiana a favore dei militari esposti a sostanze tossiche. Cabigiosu, oggi cinquantenne e residente a Verona, ha prestato servizio nel VI Reggimento Alpini, partecipando a numerose missioni, tra cui quella delicata dell’operazione Joint Forge a Sarajevo, in Bosnia, dal febbraio al luglio 2001.

Proprio in queste circostanze, il tenente è stato ripetutamente esposto a cancerogeni come l’amianto e le radiazioni derivanti dall’uso di proiettili all’uranio impoverito.

Nel 2018, a soli 44 anni, Cabigiosu ha ricevuto una drammatica diagnosi: leucemia mieloide cronica, una malattia asbesto-correlata che ha portato a un danno biologico del 100%.

Le cause sono da ricondurre all’esposizione prolungata alle sostanze tossiche, sia durante le missioni estere, come quella nei Balcani, sia nelle stesse caserme italiane in cui il tenente aveva prestato servizio.

ONA a fianco dell’alpino

Per ottenere il riconoscimento dei suoi diritti come vittima del dovere, Cabigiosu si è rivolto all’avvocato Ezio Bonanni, che ha deciso di presentare un ricorso al Tribunale di Verona. Dopo una lunga battaglia legale, il 10 luglio scorso, la magistratura ha emesso una sentenza definitiva, riconoscendo il militare come vittima del dovere e condannando i ministeri della Difesa e dell’Interno a risarcirlo con 285mila euro, oltre a un assegno vitalizio di 2.100 euro mensili.

Bonanni ha sottolineato quanto questa sentenza sia significativa, in quanto ha «invertito lonere della prova», stabilendo che è lo Stato a dover dimostrare che l’esposizione a sostanze radioattive e metalli pesanti non abbia causato la malattia. Questa decisione non solo risarcisce il danno subito dal militare, ma pone anche un precedente importante per altre vittime, evidenziando le responsabilità dei ministeri nei confronti del personale esposto a simili rischi, sia in Italia sia nei teatri operativi internazionali.

Tuttavia, rimarca l’avvocato, nonostante le vittorie legali, lo Stato è lento nell’attuare misure concrete per prevenire futuri danni e per riconoscere quelli già causati.

Bonanni ha inoltre sottolineato l’analogia tra il caso di Cabigiosu e quello del giornalista Rai Franco Di Mare, anch’egli esposto a elevate contaminazioni durante il suo lavoro nei Balcani.

L’Avvocatura dello Stato: per il presidente ONA “un paradosso giuridico”

Una delle critiche più accese di Bonanni riguarda il ruolo dell’Avvocatura dello Stato, spesso schierata contro le stesse vittime del dovere. «È paradossale che un servitore dello Stato debba fare causa allo Stato stesso per ottenere giustizia», ha dichiarato con fermezza.

Il presidente ONA ha denunciato il fatto che l’Avvocatura venga utilizzata come strumento per difendere il Ministero, ostacolando le richieste dei militari ammalati.

«Combattere queste cause è la cosa più vergognosa – ha aggiunto – e luso dellAvvocatura per difendere il Ministero della Difesa contro i militari malati è uninaccettabile distorsione del sistema giuridico».

Le testimonianze del Colonnello Carlo Calcagni e della presidente Accademia della legalità Paola Vegliantei

Il Colonnello Carlo Calcagni, uno dei protagonisti del convegno, ha offerto una toccante testimonianza personale. Calcagni, anch’egli vittima di contaminazioni da uranio impoverito, ha raccontato la sua lotta quotidiana contro una malattia degenerativa causata dall’esposizione a sostanze tossiche durante le missioni. La sua testimonianza è un monito vivente delle tragiche conseguenze subite dai militari italiani, ma anche della loro determinazione a non arrendersi.

Paola Vegliantei, presidente dell’Accademia della Legalità, ha sottolineato poi con forza l’importanza di far emergere la verità su questi casi, combattendo il silenzio e l’inerzia delle istituzioni. Nello specifico, ha ricordato che la lotta per il riconoscimento delle vittime del dovere è ancora lunga, ma ha ribadito la necessità di continuare a fare pressione affinché le istituzioni assumano le loro responsabilità.

La giustizia come unica via

Il convegno di Udine ha rappresentato un momento di riflessione su una delle questioni più complesse e dolorose che affliggono i militari italiani. L’intervento dell’avvocato Ezio Bonanni ha evidenziato l’urgenza di un cambio di passo da parte dello Stato, affinché i diritti dei militari siano tutelati in maniera effettiva e tempestiva. Le testimonianze del colonnello Carlo Calcagni e di Paola Vegliantei hanno ulteriormente arricchito il dibattito, fornendo una visione a tutto tondo su una problematica che, troppo spesso, rimane nell’ombra.

La battaglia legale per il riconoscimento delle vittime del dovere è ancora in corso, ma il tavolo di lavoro ha dimostrato che, attraverso una giustizia tenace e una costante sensibilizzazione, si possono ottenere risultati concreti. Le storie di questi militari e delle loro famiglie devono essere ascoltate, e lo Stato ha il dovere di rispondere, non solo con parole, ma con azioni.