Valutare i pericoli legati all’esposizione all’amianto è un obbligo dei datori di lavoro. L’uso dell’amianto è vietato per legge e devono essere valutate le situazioni di rischio per gli operatori che potrebbero lavorare a contatto con questo minerale. Il legislatore nel 1992 ha imposto la cessazione dell’estrazione, produzione e utilizzo di materiali che contengono amianto. Pertanto, il datore di lavoro non può in nessun modo utilizzare l’amianto per le attività aziendali. Ci sono purtroppo numerose situazioni in cui l’amianto è presente negli edifici e non ancora bonificato e un certo numero di lavoratori impegnati nella bonifica degli stessi.
In questo articolo scopriamo la legislazione in merito, come si adottano le misure di sicurezza e cosa sucecce se i datori di lavoro non adempiono alle loro responsabilità.
L’Osservatorio Nazionale Amianto si occupa di lotta all’amianto da decenni e promuove la promozione attraverso la bonifica amianto. La bonifica infatti resta l’unico metodo sicuro per evitare le esposizioni tout court, come ribadito anche dall’OMS. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ribadisce inoltre che l’amianto è cancerogeno e che ci sono ancora 125 milioni di lavoratori che ne sono esposti, con più di 107 mila decessi per ogni anno. L’inalazione di fibre e polveri di asbesto dà vita a un meccanismo di cancerogenesi, come confermato dall’ultima monografia IARC.
Le responsabilità dei datori di lavoro
Come già accennato tra le responsabilità del datore di lavoro c’è la valutazione del rischio amianto. Ovvero la responsabilità di individuare i materiali che contengono amianto e il potenziale rilascio di fibre. Una volta individuati i rischi, è necessario adottare misure preventive per ridurre l’esposizione al di sotto del limite consentito e verificare l’efficacia di tali misure.
L’obiettivo è garantire un ambiente di lavoro sicuro per gli operatori, tutelando la loro salute e prevenendo rischi a lungo termine derivanti dall’esposizione all’amianto.
Motivi di superamento del limite di esposizione
Il datore di lavoro ha anche l’obbligo di individuare le cause di eventuali superamenti del limite di esposizione all’asbesto, sinonimo di amianto. Solo così sarà possibile adottare le adeguate misure di prevenzione e protezione per i lavoratori che svolgono attività a rischio.
Una volta individuati i motivi per i quali non è stato possibile garantire un’esposizione al di sotto del limite di sicurezza, è necessario adottare tutte le misure necessarie per ridurre l’esposizione al di sotto di tale valore.
Questo processo deve essere seguito da una continua verifica dell’efficacia delle misure adottate, al fine di garantire la massima tutela della salute dei lavoratori. Solo attraverso l’implementazione di tutte le azioni previste dalla legge si possono prevenire eventuali malattie causate dall’amianto e garantire un ambiente di lavoro sicuro e salubre per tutti.
La riduzione dell’esposizione rappresenta un obiettivo primario per garantire la salute e la sicurezza degli operatori.
Obblighi datori di lavoro per attività esposte all’amianto
La sicurezza sul posto di lavoro è di estrema importanza e la legislazione italiana prevede obblighi specifici in base all’attività e al livello di esposizione all’amianto. Il datore di lavoro è tenuto a valutare i rischi e individuare le cause di superamento del valore limite di esposizione all’amianto. Successivamente, deve adottare le misure necessarie per ridurre l’esposizione al di sotto del valore limite e verificare l’efficacia di tali misure. È altrettanto importante fornire formazione ai lavoratori in modo che siano preparati sulle lavorazioni che possono comportare l’esposizione all’amianto e sulle procedure di lavoro sicure.
Inoltre, è vietato impiegare contemporaneamente più di tre addetti in un intervento diretto. Se ciò non è possibile, il numero dei soggetti impiegati deve essere limitato. L’obiettivo finale è garantire la massima sicurezza per gli operatori in tutte le fasi del lavoro.
Cosa dice la sentenza del 2 agosto 2017?
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 2 agosto 2017, numero 19270, ha stabilito che anche in assenza di una certezza scientifica sulla causa specifica della malattia che ha portato al decesso di un dipendente, se tale dipendente ha svolto la propria attività per lungo tempo a contatto con l’amianto senza adeguate misure di sicurezza, la responsabilità deve essere attribuita al datore di lavoro.
Nel caso esaminato dalla Corte Suprema, gli eredi di un lavoratore deceduto a causa di un tumore avevano presentato un ricorso al Tribunale del lavoro per ottenere il riconoscimento della natura professionale della malattia e il conseguente risarcimento del danno subito.
Il giudice del lavoro aveva accolto il ricorso e condannato i datori di lavoro presso cui il dipendente aveva lavorato a risarcire il danno, assegnando il 30% di responsabilità a una società e il 70% all’altra.
Anche la Corte d’appello aveva confermato la decisione del giudice di primo grado, affermando che l’uso diffuso e costante di materiali contenenti amianto durante il periodo lavorativo presso le due società era stato accertato sulla base delle informazioni raccolte dall’ASL competente.
Valutazione del rischio amianto, precedente al 1992
Non importa il fatto che la pericolosità dell’amianto sia stata riconosciuta solo negli anni ’90, poiché il rischio derivante dalla formazione e diffusione delle polveri era già noto, come previsto nell’articolo 15 del DPR 303/1956, e il rischio specifico derivante dall’amianto era già stato recepito legislativamente con il DPR 1124/1965.
Questa decisione è adeguatamente motivata e conforme alla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha individuato gli stessi obblighi e responsabilità del datore di lavoro in casi simili (sentenza 18503/2016).
Infine, i giudici di legittimità sottolineano che la valutazione di prevedibilità ed evitabilità deve riferirsi non a un tipo specifico di neoplasia che si è manifestata, poiché questo implicherebbe una valutazione scientifica legata a un diverso giudizio di causalità, ma al generico verificarsi di un danno alla salute del lavoratore, che è l’evento che l’articolo 2087 del codice civile e il DPR 303/1956 mirano a prevenire.
Datori di lavoro e risarcimento danni alla vittima amianto
In caso di malattia professionale, l’INAIL deve erogare al lavoratore vittima una serie di prestazioni. Il datore di lavoro sarà direttamente responsabile del risarcimento integrale dei danni al lavoratore e potrà essere soggetto a un’azione da parte dell’ente assicuratore.
Storicamente, la compensazione doveva coprire solo il danno patrimoniale, ovvero la perdita della capacità lavorativa, oltre al danno morale derivante dal reato. Tuttavia, a partire dagli anni ’80, la Corte Costituzionale ha stabilito che il datore di lavoro è tenuto a risarcire non solo il danno patrimoniale, ma anche il danno biologico.
Secondo la giurisprudenza, la liquidazione del danno biologico deve avvenire in base a criteri equi che tengano conto delle circostanze specifiche di ogni caso.
Il risarcimento dei danni alla vittima e ai famigliari
Tuttavia, l’obbligo di risarcire il danno biologico da parte del datore di lavoro è stato revocato quando si è stabilito che l’INAIL doveva liquidare al lavoratore solo il danno patrimoniale derivante dalla perdita della capacità lavorativa.
Successivamente, il legislatore è intervenuto con il decreto legislativo n. 38/2000, nell’ambito della riforma dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, estendendo la protezione assicurativa anche al danno biologico, definito come la lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, suscettibile di valutazione medico-legale.
Il risarcimento integrale dei danni da parte del datore di lavoro non riguarda solo la vittima di malattia amianto correlata ma anche i famigliari della vittima deceduta.